
A poche ore dall'esordio mondiale dell'armata brancaleone italiana, è più la sorpresa per il personale ottimismo che arieggia su questa crociata che la tensione per una delle tante epiche partite che, come siamo soliti noi italiani, riusciremo naturalmente a far divenire drammatica nonostante la pochezza degli avversari, così come il canovaccio culturale vuole che si faccia. Anche se non credo di essere l'unico a sperare che si abbatta sulla nazionale una prima mezza disfatta che possa poi di conseguenza, come da tradizione, essere funzionale al raggiungimento di risultati storici (rimane comunque bassissima la probabilità di poter ripetere il cammino fatto quattro anni fa). Poichè è solo nell'emergenza che noi italiani riusciamo a dare il meglio di noi stessi, fedeli come siamo alla nostra capacità d'improvvisazione, la quale resterebbe altrimenti inespressa in quelle situazioni in cui ci dovessimo trovare tragicamente già preparati (bonus: questa si chiama self-fulfilling prophecy).
Si capirà quindi che, oltre alla risentita invidia di chi scrive nei confronti di questi che guadagnano milioni semplicemente giocando a calcio su campi d'erba che sembrano i green calpestati da Tiger Woods, senza peraltro doversi preoccupare di rovinarli, finora il piacere derivato da questi mondiali è stato più causato dall'osservazione delle differenze culturali e genetiche che ci sono tra le squadre che dallo spettacolo dell'evento calcistico, purtroppo molto povero e malamente condito dall'ingenuità puerile dei numerosi che sanno esprimere la propria gioia unicamente dando fiato a trombette mono-nota.
Ebbene, abbiamo così notato la compattezza della Germania che, come al solito senza fronzoli barocchi, fa ciò che deve essere fatto con metodo e costanza nonostante l'inusuale multiculturalità che la contraddistingue quest'anno: Marco Marin, Cacau e Gomez sono nomi che non hanno nulla a che fare con Bastian Schweinsteiger. Poi c'è la tamarrissima Argentina (tamarra per noi, s'intende) dove le lunghe chiome e le foltissime capigliature che caratterizzano sia l'attempato allenatore che gli undici in campo fanno pensare ad uno sviluppo particolare del gene del capello in quella zona del mondo (naturalmente ci fosse stato Cambiasso avrebbe abbassato la media drasticamente, anche se l'eventuale presenza del sempreverde Zanetti l'avrebbe poi inesorabilmente pareggiata). Oppure la Nigeria, dove non c'è giocatore che non abbia spalle larghissime, pettorali prominenti e glutei massicci a caratterizzare un fisico perfettamente longilineo ed esplosivo. E poi c'è il calcio moderno a due tocchi dell'avanzatissima Olanda o l'improvvisazione disorganizzata dell'Algeria (lo ammetto, questo è uno stereotipo: l'ho scritto senza guardare la partita), l'anonimità degli Stati Uniti, calcisticamente ancora giovani (sono personalmente convinto che le caratteristiche culturali del calcio poco si adattano a quelle più generali dell'Americanità) e via dicendo, fino alla capacità peculiare dell'Italia di ottenere il massimo attraverso il minimo, che osserveremo inesorabilmente stasera o nelle partite a venire.
Detto in altre parole, i mondiali di calcio, a differenza dei campionati nazionali, sono belli perchè sono no-global.
Si capirà quindi che, oltre alla risentita invidia di chi scrive nei confronti di questi che guadagnano milioni semplicemente giocando a calcio su campi d'erba che sembrano i green calpestati da Tiger Woods, senza peraltro doversi preoccupare di rovinarli, finora il piacere derivato da questi mondiali è stato più causato dall'osservazione delle differenze culturali e genetiche che ci sono tra le squadre che dallo spettacolo dell'evento calcistico, purtroppo molto povero e malamente condito dall'ingenuità puerile dei numerosi che sanno esprimere la propria gioia unicamente dando fiato a trombette mono-nota.
Ebbene, abbiamo così notato la compattezza della Germania che, come al solito senza fronzoli barocchi, fa ciò che deve essere fatto con metodo e costanza nonostante l'inusuale multiculturalità che la contraddistingue quest'anno: Marco Marin, Cacau e Gomez sono nomi che non hanno nulla a che fare con Bastian Schweinsteiger. Poi c'è la tamarrissima Argentina (tamarra per noi, s'intende) dove le lunghe chiome e le foltissime capigliature che caratterizzano sia l'attempato allenatore che gli undici in campo fanno pensare ad uno sviluppo particolare del gene del capello in quella zona del mondo (naturalmente ci fosse stato Cambiasso avrebbe abbassato la media drasticamente, anche se l'eventuale presenza del sempreverde Zanetti l'avrebbe poi inesorabilmente pareggiata). Oppure la Nigeria, dove non c'è giocatore che non abbia spalle larghissime, pettorali prominenti e glutei massicci a caratterizzare un fisico perfettamente longilineo ed esplosivo. E poi c'è il calcio moderno a due tocchi dell'avanzatissima Olanda o l'improvvisazione disorganizzata dell'Algeria (lo ammetto, questo è uno stereotipo: l'ho scritto senza guardare la partita), l'anonimità degli Stati Uniti, calcisticamente ancora giovani (sono personalmente convinto che le caratteristiche culturali del calcio poco si adattano a quelle più generali dell'Americanità) e via dicendo, fino alla capacità peculiare dell'Italia di ottenere il massimo attraverso il minimo, che osserveremo inesorabilmente stasera o nelle partite a venire.
Detto in altre parole, i mondiali di calcio, a differenza dei campionati nazionali, sono belli perchè sono no-global.


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