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venerdì 29 aprile 2011

il bisogno di eroi

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In concomitanza della festa dei lavoratori e dell'ormai tradizionale concerto di San Giovanni, la chiesa cattolica ha vilmente deciso di celebrare nello stesso giorno anche la santificazione di Giovanni Paolo II.

Tralasciando le cause mediatiche di questa santificazione tanto immediata quanto moralmente ingiustificata, anche se un'istituzione che ha l'usanza di santificare può naturalmente santificare chiunque voglia, vorremmo soffermarci su alcuni piccoli particolari che sono emersi leggendo l'interessante intervista di Zucconi a Joaquin Navarro-Valls, fidato di Wojtyla, compagno di una vita che per decenni ha fatto coppia fissa con il santo.

In questo caso è favoloso constatare il modo di nascita del mito che, nella sua formazione, deriva certamente dal pregiudizio di straordinarietà nei confronti di una persona o di un evento. E' così che delle cose normali divengono straordinarie attraverso l'enfasi di chi le osserva, soprattutto quando si tratta di personaggi televisivi particolarmente importanti come lo è stato il papa di cui sopra.

E quindi, non sorprende che in un periodo in cui si sta facendo a gara per rivelare fatti particolari o classici aneddoti da intervista, ci si impressioni di fronte a modi e costumi peculiarissimi e straordinariamente fuori dal comune del trapassato papa. Ricordiamo ad esempio il suo stoico atteggiamento nei luoghi caldi: "Lui, con straordinaria e discreta eleganza, ritardava di bere". Oppure la sua epica efficienza nelle trasferte: "Voleva sempre che si viaggiasse di notte nei voli intercontinentali, per arrivare al mattino sul posto e avere così davanti a sé tutta una giornata di lavoro."

Senza contare il ricordo(*) dell'epocale intervento epistolare nei confronti della Russia che miracolosamente fermò l'invasione della Polonia e che tanto ricorda le telefonate risolutorie sbandierate propagandisticamente dal nostro premier, anch'egli tra l'altro in odore di santità, come da lui stesso confessato.

O infine la sua geniale noncuranza nei confronti del giudizio delle telecamere: "Per lui le telecamere, il trucco, le luci non esistevano. Questi atteggiamenti da personaggetti che si fanno spiegare come e dove devono guardare, se fissare l'obbiettivo o guardare fuori, se sorridere o sembrare seri, non lo sfioravano mai. I primi tempi mi preoccupavo, sapendo quanto la telecamera possa essere crudele. Ma per lui comunicare era far apparire la verità, non costruire un'apparenza".
 
A questo punto, non ci resta che attendere il ricordo commosso di chi  un giorno racconterà il severo ma allo stesso tempo sereno ammonimento del papa al suo truccatore nell'invitarlo a non coprire troppo le sue rughe, poichè ci aveva messo una vita a farle.


(*) Come Leone Magno con Attila? Per ordinargli in nome di Dio di non toccare la Polonia?
"No, sarebbe forse stato un errore, avrebbe fatto infuriare il Cremlino e offeso l'orgoglio dei sovietici. Gli scrisse, con grande chiarezza e con la conoscenza diretta che aveva di quei regimi e della loro mentalità, solo per ricordargli che appena cinque anni prima, nel 1975, lui stesso, Breznev, aveva firmato a Helsinki un trattato solenne in cui l'Urss si impegnava a non interferire negli affari interni di ogni altra nazione europea. Dunque, se avesse invaso la Polonia avrebbe violato la sua stessa parola, la parola dell'Unione Sovietica".
E Breznev rispose?
"Sì, ma non con una lettera, né per via diplomatica. La sua vera risposta fu la rinuncia all'azione di forza. Eppure Breznev sapeva, come sapevamo tutti, che lasciare la Polonia al proprio destino sarebbe stata la fine per la stessa Unione Sovietica e che il sogno del Papa, che era un'Europa dall'Atlantico agli Urali, ma senza il dominio di una potenza, si sarebbe inesorabilmente avvicinato".

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